sexta-feira, 30 de dezembro de 2011

Ettore Paratore, STORIA DEL TEATRO LATINO


APRESENTAÇÃO

Na convicção de que uma das melhores maneiras de honrar um Mestre - e Ettore Paratore foi um dos maiores do século XX - seja contribuir na perpetuação de sua docência através da publicação de suas obras, o Departamento de Filologia Grega e Latina da Faculdade de Letras e Filosofia da Universidade de Roma "La Sapienza" - justamente a faculdade em que lecionou por mais de trinta anos - decidiu cuidar da reedição da Storia del teatro Latino, uma das obras mais prestigiosas e envolventes do estudioso, na qual, com particular sugestão se manifesta o seu temperamento de fino leitor e de genial interprete das letras latinas. O obra apareceu em 1957 (Casa editora Francesco Vallardi) em um período de extraordinário e intenso fervor criativo: entre os escritos de amplo respiro bastará recordar a Storia della letteratura latina (Firenze 1950), com a qual a Storia del teatro Latino condivide plenamente as duas colunas metodológico-exegéticas da pesquisa de Paratore: de um lado, a necessidade de não isolar os fenômenos literários em uma contemplação estética fechada em si mesma, mas, ao contrário, de inserí-los nos relativos contextos históricos e culturais, organicamente indagados em seus múltiplos aspectos - também no respeito da especificidade exclusiva do mundo interior de cada autor e na consciência (já evidenciada por Paratore na introdução à Storia del teatro Latino) da clara diferença entre o espírito "popular" da produção teatral dos Gregos, principalmente em Atenas, e o espírito predominantemente "elitista" da produção teatral em Roma -, e de conectá-los estreitamente à dinâmica dos vários gêneros literários; de outro lado, a íntima e convicta certeza - proclamada sempre com brilhante veemência argumentativa contra os antiquados e desgastados preconceitos, quer de uma ingênua concepção romântica da literatura, quer de um míope positivismo obscurecido por uma Quellenforschung com fim em si mesma - sobre a originalidade dos escritores latinos em relação aos igualmente imponentes modelos gregos: uma originalidade não somente sustentada em nome de uma refinada sensibilidade artística, mas também historicamente correlacionada aos princípios fundamentais da mesma poética clássica, a qual reconhecia a mais autêntica marca da personalidade não certamente na objetiva novidade dos conteúdos, mas na unicidade da reinterpretação ideológica, sentimental, expressiva; e em um genus como o teatral, no qual os débitos temáticos, formais, de conteúdo, dos Romanos em relação aos Gregos resultam mais evidentes e consistentes, a reivindicação de tal originalidade é constantemente um dos pontos fortes da análise, sem que sejam subvalorizados os laços com a cultura helênica: os autores emergem, com os seus respectivos traços, não enquanto "imitadores", mas como "homens de teatro", com uma pessoal e forte autonomia artística. Paratore expôs suas idéias sobre o teatro Romano em modo pessoal e peculiar de seu ingenium crítico. Nessas páginas, por exemplo, seriam em vão procurar informações "didascálicas", como as tramas dos dramas, enquanto, por outro lado, são minuciosamente aprofundados os problemas da cronologia, sobretudo em relação às comédias de Plauto e as tragédias de Sêneca; também porque era importante para o estudioso assinalar as linhas de uma evolução, seja no conjunto da produção destinada ao teatro, seja na maturação das várias personalidades artísticas. [...]
(da apresentação do livro Storia de teatro Latino, p. IX-X, por Leopoldo Gamberale e Antonio Marchetta)
Tradução: AVRELIVS

INDICE:
VIII: Presentazione
3: Introduzione
Capitolo primo: Le origini
11: L'influsso etrusco
15: I fescennini
18: La "satura"
19: L'atellana
25: Il mimo

Capitolo secondo: L'organizzazione teatrale in Roma
29: Autori, attori e organizzazione dello spettacolo
35: I costumi
40: Struttura delle opere
54: I teatri
58: I "ludi"

Capitolo terzo: Il grande periodo del teatro romano
63: Prima fase: da Livio Andronico a Plauto
66: Livio Andronico
72: Nevio
85: Plauto

Capitolo quarto: Il grande periodo del teatro romano (II)
147: Seconda fase: da Ennio all'età sillana
149: Ennio
155: Pacuvio
160: Cecilio Stazio e gli autori minori di "palliatae"
171: Terenzio
206: Accio
210: La "fabula togata"
217: L' "atellana" letteraria

Capitolo quinto: Età di Cesare
221: Gli spettacoli. La creazione del teatro stabile
223: Le forme tradizionali del teatro letterario
224: Il mimo

Capitolo sesto: L'età imperiale
229: L'etá di Augusto: gli autori
236: L'età di Augusto: lo sviluppo dell'idilizia teatrale
240: La vita teatrale nei secoli successivi
245: L'attività poetica prima di Seneca
248: Seneca
291: Ultimi guizzi

297: Bibliografia generale

Appendice
301: I. Postilla sulla "Storia del teatro latino"
317: II. Il flautista nel Δύσκολος e nel Pseudolus
333: III. Plauto imitatore di se stesso
369: IV. Antestor nel Curculio  e nel Poenulus
391: V. Studi sulla Palliata
413: VI. Avventure di lettura, di ascolto e di scrittura

433: Indice dei luoghi, dei manoscritti, dei nomi

Classical Faculty Library, University of Cambridge

Para quem planeja estudar Letras Clássicas no exterior, fica a dica:
http://www.classics.cam.ac.uk/Library/

quinta-feira, 29 de dezembro de 2011

...non si traduce (II)

James Boswell
in un dipinto di Sir Joshua Reynolds
“Omero suona il fagotto,
e Pope nel tradurlo suona lo zufolo”

Barthes R., “La retorica antica”


Roland Barths

Nascita della retorica

A. 1.1. Retorica e proprietà.
La retorica (come metalinguaggio) è nata dai processi di proprietà. Verso il 485 a. C. due tiranni siciliani, Gelone e Gerone, operarono delle deportazioni, dei trasferimenti di popolazione e delle espropriazioni per popolare Siracusa ed assegnare lotti ai mercenari; quando furono rovesciati da una sollevazione democratica e si volle tornare all’ante quo, si ebbero innumerevoli processi, dato che i diritti di proprietà erano offuscati. Questi processi erano di nuovo tipo: mobilitavano grandi giurie popolari davanti alle quali, per convincere, bisognava essere “eloquente”. Questa eloquenza, partecipe della democrazia e della demagogia, del giudiziario e del politico (quel che venne chiamato poi il deliberativo), si costituì rapidamente in oggetto d’insegnamento. I primi professori di questa nuova disciplina furono Empedocle d’Agrigento, Corace, suo allievo di Siracusa (il primo a farsi pagare le lezioni) e Tisia. Questo insegnamento passò non menò rapidamente nell’Attica (dopo le guerre persiane), grazie a contestazioni di commercianti che intentavano cause sia a Siracusa che ad Atene: la retorica è già, in parte, ateniese fin dalla metà del V secolo.
A. 1.2. Una grande sintagmatica.
Che cos’è questa proto-retorica, questa retorica coraciana? Una retorica del sintagma, del discorso, e non del tratto, della figura. Corace fissa già le cinque grandi parti dell’oratio che formeranno per secoli il “piano” del discorso oratorio:
1) l’esordio,
2) la narrazione o azione (relazione dei fatti),
3) l’argomentazione o prova,
4) la digressione,
5) l’epilogo.
È facile constatare che, passando dal discorso giudiziario alla dissertazione scolastica, questo piano ha conservato la sua organizzazione principale: una introduzione, un corpo dimostrativo, una conclusione. Questa prima retorica è insomma una grande sintagmatica.
A.1.3.  La parola finta.
È gustoso constatare che l’arte della parola è originariamente legata ad una rivendicazione di proprietà, come se il linguaggio, in quanto oggetto d’una trasformazione, condizione d’una pratica, si sia determinato non già a partire da una sottile mediazione ideologica (come è potuto accadere per tante forme d’arte), ma a partire dalla socialità più nuda, affermata nella sua brutalità fondamentale, quella del possesso terriero: s’è cominciato — da noi — a riflettere sul linguaggio per difendere il proprio bene. È al livello del conflitto sociale che è nato un primo abbozzo teorico della parola finta (differente dalla parola di finzione, quella dei poeti: la poesia era
allora la sola letteratura, mentre la prosa non accederà che più tardi a questa condizione).
A.2.     Gorgia, o la prosa come letteratura.
Gorgia nato a Lentini, a nord di Siracusa, è giunto ad Atene nel 427; è stato maestro di Tucidide, è l’interlocutore sofista di Socrate nel Gorgia.
A.2. 1. Codifica della prosa.
Il ruolo di Gorgia (per noi) è d’aver fatto passare la prosa sotto il codice retorico, accreditandola come discorso colto, oggetto estetico, “linguaggio sovrano”, antenato della “letteratura”. Come? Gli Elogi funebri (treni), prima composti in versi, passano alla prosa e sono attribuiti ad uomini di Stato; sono, se non scritti (nel senso moderno della parola), per lo meno imparati, vale a dire, in un certo modo, fissati; nasce così un terzo genere (dopo il giudiziario ed il deliberativo), l’epidittico; è l’avvento di una prosa decorativa, d’una prosa-spettacolo. In questo passaggio dal verso alla prosa, il metro e la musica si perdono. Gorgia vuoi sostituirli con un codice immanente alla prosa (per quanto preso a prestito dalla poesia): parole d’identica consonanza, simmetria delle frasi, rafforzamento delle antitesi con assonanze, metafore, allitterazioni.
A.2.2.  Avvento dell’elocutio.
Perché Gorgia costituisce una tappa del nostro viaggio? Nell’arte retorica completa (quella di Quintiliano ad esempio) vi sono grosso modo due poli: un polo sintagmatico: è l’ordine delle parti del discorso, la  dispositio; ed un polo paradigmatico: sono le “figure” di retorica, l’elocutio. Abbiamo visto che Corace aveva lanciato una retorica puramente sintagmatica. Gorgia, con la richiesta di lavorare le “figure”, le dà una prospettiva paradigmatica: apre la prosa alla retorica, e la retorica all’a « stilistica”.
A.3.     Platone.
I dialoghi di Platone che trattano direttamente della retorica sono: il Gorgia ed il Fedro.
A.3.1.  Le due retoriche.
Platone tratta di due retoriche, una cattiva, l’altra buona. I. La retorica di fatto è costituita dalla logografia, attività che consiste nello scrivere qualsiasi discorso (non si tratta più della sola retorica giudiziaria; la totalizzazione della nozione è importante); suo oggetto è la verisimiglianza, l’illusione; è la retorica dei retori, delle scuole, di Gorgia, dei sofisti. Il. La retorica di diritto è la Vera retorica, la retorica filosofica o meglio la dialettica; suo oggetto è la verità; Platone la chiama una psicagogia (formazione degli animi per mezzo della parola). L’opposizione della buona e della cattiva retorica, della retorica platonica è della retorica sofistica, fa parte d’un paradigma più largo: da un lato le adulazioni, i laboriosi servilismi, le contraffazioni; dall’altro, il rigetto d’ogni compiacimento, la rudezza; da una parte le empirie e le routines, dall’altra le arti: le industrie del piacere sono una contraffazione spregevole delle arti del Bene, la retorica è la contraffazione della Giustizia, la sofistica lo è della legislazione, la cucina della medicina, la toletta della ginnastica: la retorica (quella dei logografi, dei retori, dei sofisti) non è quindi un’arte.
A.3.2.  La retorica erotizzata.
La vera retorica è una psicagogia; richiede un sapere totale, disinteressato, generale (questo diverrà un topos in Cicerone e Quintiliano, ma la nozione diverrà scialba: quel che si richiederà all’oratore è una buona “cultura generale”). Questo sapere «sinottico” ha per oggetto la corrispondenza o l’interazione che lega le specie d’anime e le specie di discorsi. La retorica platonica scarta lo scritto e ricerca l’interlocutore personale, l’ad hominatio; la modalità fondamentale del discorso è il dialogo tra il maestro e l’allievo, uniti dall’amore ispirato. Pensare in comune, tale potrebbe essere il motto della dialettica. La retorica è un dialogo d’amore.
A.3.3.  La divisione, la marcatura.
I dialettici (quelli che vivono questa retorica erotizzata) hanno due modi di procedere solidali: da una parte un moto di riunione, di ascesa verso un termine in-condizionale (Socrate, riprendendo Lisia, nel Fedro, definisce l’amore nella sua unità totale); dall’altra, un movimento di discesa, una divisione dell’unità secondo le sue articolazioni naturali, secondo le sue specie, fino a cogliere la specie indivisibile. Questa « discesa” procede in maniera scalare: ad ogni tappa, ad ogni gradino, dispone di due termini; bisogna scegliere l’uno contro l’altro per rilanciare la discesa ed accedere ad un nuovo abbinamento, da cui si ripartirà di nuovo; tale è la definizione progressiva del sofista.
Questa retorica della divisione — che s’oppone alla retorica aristotelica del sillogismo — somiglia molto ad un programma cibernetico, digitale: ogni scelta determina la seguente alternativa; o anche alla struttura paradigmatica del linguaggio, i cui elementi binari comportano un termine marcato ed uno non marcato: qui
il termine marcato rilancia il gioco alternativo. Ma di dove viene la marcatura?
È qui che ritroviamo la retorica di Platone: nel dialogo platonico, la marcatura è assicurata da una concessione di colui che risponde (dell’allievo). La retorica di Platone implica due interlocutori, e che uno annuisca: è la condizione del movimento.. Così tutte queste particelle che incontriamo nei dialoghi di Platone, e che ci fanno spesso sorridere (se pur non ci annoiano) per la loro ingenuità e la loro piattezza apparenti, sono in realtà “marcature” strutturali, atti retorici.
A.4.     La retorica aristotelica.
A.4.1.  Retorica e poetica.
Non è forse aristotelica l’intera retorica (se si eccettua Platone)?
Probabilmente si: tutti gli elementi didattici che alimentano i manuali classici vengono da Aristotele. Eppure un sistema non è definito soltanto dai suoi elementi, ma anche e soprattutto dall’opposizione in cui si trova preso. Aristotele ha scritto due trattati che riguardano i fatti di discorso, ma questi due trattati sono distinti: la tecnè retorikè  tratta d’un’arte della comunicazione quotidiana, del discorso in pubblico: la tecnè retorikè tratta d’un’arte dell’evocazione immaginaria; nel primo caso si tratta di regolare la progressione del discorso di idea in idea, nel secondo caso la progressione dell’opera d’immagine in immagine: si tratta, per Aristotele, di due percorsi specifici, due tecnè autonome; ed è l’opposizione di questi due sistemi: uno retorico, l’altro poetico, che definisce effettivamente la retorica aristotelica. Tutti gli autori che riconosceranno quest’opposizione potranno essere inquadrati nella retorica aristotelica; questa verrà a cessare quando l’opposizione sarà neutralizzata, quando retorica e poetica si fonderanno, quando la retorica diventerà una tecnè poetica (di “creazione”): questo succede più o meno all’epoca di Augusto (con Ovidio, Orazio) ed un po’ più tardi (Plutarco, Tacito) — benché Quintiliano pratichi ancora una retorica aristotelica. La fusione della Retorica e della Poesia è consacrata dal vocabolario del Medioevo, dove le arti poetiche sono arti retoriche, dove i grandi retori sono poeti. Questa fusione è capitale, perché è all’origine stessa dell’idea di letteratura: la retorica aristotelica pone l’accento sul ragionamento; l’elocutio (o dipartimento delle flgure) ne è solo una parte (minore anche in Aristotele); in seguito è il contrario: - la retorica s’identifica coi problemi, non di “prova”, ma di composizione e di stile: la letteratura (atto totale di scrittura) si definisce come il bello scrivere. Vanno dunque costituite come tappe del nostro viaggio, sotto il nome generale di retorica aristotelica, le retoriche anteriori alla totalizzazione poetica. Di questa retorica aristotelica, ne avremo la teoria con Aristotele stesso, la pratica con Cicerone, la pedagogia con Quintiliano e la trasformazione (per generalizzazione) con Dionigi d’Alicarnasso, Plutarco e l’Anonimo del trattato Del Sublime.
A.4.2.  La Retorica di Aristotele.
Aristotele definisce la retorica come “l’arte di estrarre da ogni soggetto il grado di composizione che esso comporta”, o come “la facoltà di scoprire speculativamente ciò che in ciascun caso può essere atto a persuadere”. Quello che è forse più importante di queste definizioni, è il fatto che la retorica è una tecnè (e non e un empiria), vale a dire: il mezzo per produrre una delle cose che possono indifferentemente essere o non essere, e la cui origine sta nell’agente creatore, non nell’oggetto creato: non vi è tecnè delle cose naturali e necessarie: il discorso dunque non fa parte né delle une né delle altre. Aristotele concepisce il discorso (l’oratio) come un messaggio e lo sottopone ad una divisione di tipo informazionale. Il libro I della Retorica è il libro dell’emittente del messaggio, il libro dell’oratore: vi si tratta principalmente della concezione delle argomentazioni, nella misura in cui dipendono dall’oratore, del suo adattarsi al pubblico, e questo secondo i tre generi riconosciuti del discorso (giudiziario, deliberativo, epidittico). Il libro Il è il libro del ricevente del messaggio, il libro del pubblico: vi si tratta delle emozioni (delle passioni) e di nuovo delle argomentazioni, ma questa volta in quanto sono recepite (e non più come prima, concepite). Il libro III è il libro del messaggio: vi si tratta della elocutio, cioè delle “figure” e della “dispositio”, cioè dell’ordine delle parti del discorso.
A.4.3.  Il verisimile.
La retorica di Aristotele è soprattutto una retorica della prova, del ragionamento, del sillogismo approssimativo (entimema); è una logica volontariamente degradata, adattata al livello del « pubblico”, vale a dire del senso comune, dell’opinione corrente. Estesa alle produzioni letterarie (il che non era la sua caratteristica originaria), implicherebbe una estetica del pubblico più che un’estetica dell’opera. È la ragione per cui, mutatis mutandis e fatte tutte le proporzioni (storiche), essa converrebbe proprio ai prodotti della nostra cultura che chiamiamo di massa, dove regna il “verisimile” aristotelico, cioè « quel che il pubblico crede possibile”. Quanti film, romanzi di appendice, reportages commerciali potrebbero prendere per motto la regola aristotelica: « Vai meglio un verisimile impossibile che un possibile inverisimile”: vale meglio raccontare ciò che il pubblico crede possibile, anche se è impossibile scientificamente, che non raccontare ciò che è possibile realmente, se codesto possibile è rigettato dalla censura collettiva dell’opinione corrente. È certo allettante mettere in rapporto questa retorica di massa con la politica di Aristotele; era, com’è noto, una politica del giusto mezzo, favorevole ad una democrazia equilibrata, incentrata sulle classi medie e incaricata di ridurre gli antagonismi tra i ricchi ed i poveri, tra la maggioranza e la minoranza; donde una retorica del buon senso, volontariamente sottomessa alla “psicologia” del pubblico.
A.4.4.  Le opere retoriche di Cicerone.
Nel Il secolo a.C., i retori greci affluiscono a Roma; si fondano scuole di retorica; esse funzionano per classi d’età; vi si praticano due esercizi: le suasoriae, sorta di dissertazioni “persuasive”. (soprattutto nel genere deliberativo) per i fanciulli, e le controversiae (genere giudiziario) per i maggiori in età. Il più antico trattato latino è la Retorica a Erennio, attribuita a volte a Cornificio, a volte a Cicerone: è quello che felze il Medioevo, che non smise mai di copiare questo manuale, diventato fondamentale nell’arte dello scrivere, con il De inventione di Cicerone. Cicerone è un oratore che parla dell’arte oratoria; di qui una certa pragmatizzazione della teoria aristotelica (e dunque, nulla di nuovo in rapporto a questa teoria). Gli scritti retorici di Cicerone comprendono:
1) La Retorica a Erennio (supposto che sia sua), che è una sorta di digest della retorica aristotelica; la classificazione delle “questioni” sostituisce però in importanza la teoria dell’entimema: la retorica si fa professionale. Vi si vede apparire anche la teoria dei tre stili: (semplice, medio, sublime).
2) De inventione oratoria: è una opera (incompleta) di gioventù, puramente giudiziaria, consacrata soprattutto all’e picherema, sillogismo ampliato in cui una o entrambe le premesse sono seguite dalle loro prove: è il “buon argomento”.
3) De oratore, opera molto quotata fino al XIX secolo (“un capolavoro di buon senso”, “di ragione retta e sana”, « di pensiero generoso ed alto”, “il più originale dei trattati di retorica”): ricordandosi di Platone, Cicerone moralizza la retorica e reagisce contro l’insegnamento delle scuole: è la rivendicazione dell’onest’uomo contro la specializzazione; l’opera ha la forma d’un dialogo (Crasso, Antonio, Muzio Scevola, Rufo, Cotta): essa definisce l’oratore (che deve avere una cultura generale) e passa in rivista le parti tradizionali della retorica (l’Inventio, la Dispositio, l’Elocutio).
 4) Brutus, storia dell’arte oratoria a Roma.
5) Orator, ideale ritratto dell’Oratore; la seconda parte è più didattica (sarà largamente commentata da Pietro Ramo): vi è precisata la teoria del «numero” oratorio, ripresa da Quintiliano.
6) I Topici: è un digest, fatto a memoria, in Otto giorni, sulla nave che portava Cicerone in Grecia dopo la presa del potere da parte di Marco Antonio, dei Topici di Aristotele; la cosa più interessante per noi è il reticolo strutturale della quaestio (cf. B. I. 23).
7) Le Partitiones: questo manualetto, fatto di domande e risposte, sotto forma di dialogo tra Cicerone padre e Cicerone figlio è il più secco, il meno morale dei trattati di Cicerone (e perciò, quello che io preferisco): è una retorica elementare completa, una specie di catechismo che ha il vantaggio di dare in tutta la sua estensione la classificazione retorica (è il senso della partitio: ripartizione sistematica).
A.4.5.  La retorica ciceroniana.
Si può qualificare la retorica ciceroniana con i caratteri seguenti:
a) la paura del “sistema”; Cicerone deve tutto ad Aristotele, ma lo disintellettualizza, vuol penetrare la speculazione di « gusto», di “naturalezza”; la punta estrema di questa destrutturazione sarà raggiunta nella Rhetorica sacra di S. Agostino (libro IV della Dottrina Cristiana): niente regole per l’eloquenza, che pure è necessaria per l’oratore cristiano: bisogna soltanto essere chiaro (è una carità), tenersi più attaccato alla verità che ai termini, ecc.; questo pseudo-naturalismo retorico regna ancora nelle concezioni scolastiche dello stile;
b) la nazionalizzazione della retorica: Cicerone tenta di romanizzarla (è il senso del Brutus), appare la “romanità”;
c) la collusione mitica dell’empirismo professionale (Cicerone è un avvocato immerso nella vita politica) e dell’appello alla grande cultura; questa collusione è chiamata ad una immensa fortuna: la cultura diventa lo scenario della politica;
d) lo stile: la retorica ciceroniana annuncia uno sviluppo dell’elocutio.
A.4.6.  L’opera di Quintiliano.
C’è un certo piacere nel leggere Quintiliano: è un buon professore, non affettato, non troppo moralizzante; era uno spirito ad un tempo classificatore e sensibile (congiunzione che sempre appare al mondo come stupefacente); gli si potrebbe attribuire l’epitaffio di cui M. Teste sognava per se: Transiit classificando. Fu un retore ufficiale, stipendiato dallo Stato; la sua fama fu grandissima in vita, subì un’eclisse alla sua morte, ma brillò di nuovo a partire dal IV secolo; Lutero lo preferisce ad ogni altro; Erasmo, Bayle, La Fontaine, Racine, Rolun ne danno un’alta valutazione.
La Institutio oratoria traccia in XII libri l’educazione dell’oratore fin dalla sua infanzia: è un piano completo di formazione pedagogica (è il senso di institutio). Il libro I tratta della prima educazione (frequentazione del grammatico, poi del retore); il libro Il definisce la retorica; la sua utilità; i libri dal III ai VII trattano dell’ Inventio e della Dispositio; i libri dall’VIII al X dell’Elocutio (il libro X dà dei consigli pratici per “scrivere»); il libro XI tratta delle parti minori della retorica; l’Azione (messa in opera del discorso) e la Memoria; il libro XII enuncia le qualità morali richieste all’oratore e pone l’esigenza di una cultura generale.
A.4. 7. La scolarità retorica.
L’educazione comporta tre fasi (oggi diremmo tre cicli):
1) l’apprendimento della lingua: nessun difetto linguistico delle nutrici (Crisippo voleva che fossero iniziate alla filosofia), degli schiavi e dei pedagoghi; che i genitori fossero il più istruiti possibile; bisogna cominciare con il greco, imparare allora a leggere e a. scrivere; non battere gli allievi;
2) dal grammaticus (il senso è più esteso che non quello della nostra parola “grammatico»; è, se vogliamo, l’abilitato all’insegnamento della grammatica); il fanciullo lo frequenta verso l’età di 7 anni, probabilmente; ascolta dei corsi sulla poesia e fa letture ad alta voce (lectio); scrive dei componimenti (raccontare favole, parafrasare poesie, amplificare massime); riceve le lezioni di un attore (recitazione animata);
3) dal retore; bisogna cominciare la retorica abbastanza presto, probabilmente verso i 14 anni, alla pubertà; il maestro deve continuamente pagare di persona con esempi (ma gli allievi non devono alzarsi ed applaudirlo); i due esercizi principali sono:
a)     le narrazioni, riassunti ed analisi d’argomenti narrativi, di eventi storici, panegirici elementari, paralleli, amplificazioni di luoghi comuni (tesi), discorsi, seguendo un canovaccio (preformata materia);
b)     le declamationes, o discorsi su casi ipotetici; è, se vogliamo, l’esercizio del razionale fittizio (quindi la declamatio è già vicinissima all’opera).
È chiaro quanto questa pedagogia forza la parola: questa è circoscritta da ogni parte, espulsa fuor dal corpo dell’allievo, quasi questo avesse una inibizione nativa a parlare e ci volesse tutta una tecnica, tutta un’educazione per riuscire ad uscire dal silenzio e come se questa parola finalmente appresa, finalmente conquistata, rappresentasse un buon rapporto «oggettale” con il mondo, una buona padronanza del mondo, degli altri.
A.4.8.  Scrivere.
Trattando dei tropi e delle figure (dal libro VIII al X), Quintiliano fonda una prima teoria dello « scrivere”. Il libro X è rivolto a colui che vuoi scrivere. Come ottenere la “salda facilità” (firma facilitas), cioè come vincere la sterilità nativa, il terrore della pagina bianca (facilitas) e come, però, dire qualche cosa, non lasciarsi trasportare dallo sproloquio, dalla verbosità, dalla logorrea (firma)?
Quintiliano abbozza una propedeutica dello scrittore: bisogna leggere e scrivere molto, imitare dei modelli, (fare dei pastiches), correggere moltissimo, ma dopo aver lasciato « riposare » e saper terminare. Quintiliano nota che la mano è lenta, il “pensiero” e la scrittura hanno due velocità differenti (è un problema dei surrealisti come ottenere una scrittura rapida almeno… quanto se stessa?); ora, la lentezza della mano è benefica: non bisogna dettare, la scrittura deve restare attaccata non alla voce, ma alla mano, al muscolo: installarsi nella lentezza della mano: niente brogliacci rapidi.
A.4. 9. La retorica generalizzata.
Ultima avventura della retorica aristotelica: la sua diluizione per sincretismo: la retorica cessa d’opporsi alla poetica, a profitto d’una nozione trascendente, che chiameremo oggi « Letteratura”; non è più istituita soltanto in oggetto d’insegnamento ma diviene un’arte (nel senso moderno); è ormai teoria dello scrivere e tesoro. delle forme letterarie insieme. Si può cogliere questa traslazione in cinque punti:
1) Ovidio vien spesso citato nel Medioevo per aver postulato la parentela tra la poesia e l’arte oratoria; questo accostamento viene egualmente affermato da Orazio nella sua Arte Poetica, la cui materia è spesso retorica (teoria degli stili);
2) Dionigi d’Alicarnasso, greco, contemporaneo d’Augusto, nel suo De compositione verborum, abbandona l’elemento più importante della retorica aristotelica (l’entimematica) per occuparsi unicamente d’un valore nuovo: il movimento delle frasi; appare così una nozione autonoma dello stile: lo stile non è più fondato logicamente (il soggetto prima del predicato, la sostanza prima dell’accidente), l’ordine delle parole è variabile, guidato soltanto dai valori del ritmo;
3) nei Moralia di Plutarco si trova un opuscolo “Quomodo adulescens poetas audire debeat” (come far leggere i poeti ai giovani), che moralizza a fondo l’estetica letteraria; platonico, Plutarco tenta di togliere la condanna emessa da Platone contro i poeti; come? Proprio assimilando poetica e retorica; la retorica è la via che permette di “staccare” l’azione (spesso reprensibile) dall’arte che la imita; a partire dal momento in cui si possono leggere i poeti esteticamente, si può leggerli moralmente: 4) Del Sublime è un trattato anonimo del I secolo d.C. (falsamente attribuito a Longino e tradotto da Boileau): è una specie di ‘Retorica “trascendentale”; la sublimitas è in definitiva l’” altezza” dello stile; è lo stile stesso (nell’espressione «aver dello stile”); è la letteraturità, difesa su di un tono caloroso, ispirato: il mito della «creatività” comincia a spuntare;
5) nel Dialogo degli oratori (la cui autenticità è talora contestata), Tacito politicizza le cause della decadenza dell’eloquenza: queste cause non sono il « cattivo gusto” dell’epoca, ma la tirannia di Domiziano che impone il silenzio al Foro e fa deviare verso un’arte disimpegnata, la poesia; ma proprio per questa via l’eloquenza migra verso la letteratura, la penetra e la costituisce (eloquentia viene a significare letteratura).
 A.5.1. La neoretorica. Un’estetica letteraria.
Si chiama neoretorica o seconda sofistica, l’estètica letteraria (Retorica, Poetica e Critica) che ha regnato nel mondo greco-romano unito, dal Il al IV sec. dopo Cristo. È  un periodo di pace, di commerci, di scambi, favorevole alle società oziose, soprattutto nel Medio Oriente. La neo-retorica fu davvero ecumenica: le stesse figure furono apprese da S. Agostino nell’Africa latina, dal pagano Libanio, da S. Gregorio di Nazianze, nella Grecia Orientale. Questo impero letterario si edifica con un doppio riferimento:
1) la sofistica: gli oratori d’Asia Minore, senza aggancio politico, vogliono riprendere il nome dei Sofisti, che credono d’imitare (Gorgia), senza alcuna connotazione peggiorativa; questi oratori di puro apparato godono di una gloria grandissima;
2) la retorica: essa ingloba tutto, non entra più in opposizione con alcuna nozione vicina, assorbe tutta la parola; non si tratta più d’una tecnè (speciale), ma di una cultura generale, e ancora di più: d’una educazione nazionale (al livello delle scuole d’Asia Minore): il “sofista” è un direttore di scuola, nominato dall’imperatore o da una città; il maestro che gli è subordinato è il retor.
In questa istituzione collettiva, niente nomi da citare: è una polvere d’autori, un movimento che si conosce soltanto attraverso la Vita dei sofisti, di Fiostrato. Di cosa è fatta questa educazione della parola? Bisogna, ancora una volta, distinguere la retorica sintagmatica (parti) dalla retorica paradigmatica (figure).
A.5.2.  La declamatio, l’ekphrasis.
Sul piano sintagmatico, un esercizio è preponderante: la declamatio; è un’improvvisazione su un tema; per esempio: Senofonte rifiuta di sopravvivere a Socrate, i cretesi sostengono di possedere la tomba di Zeus, l’uomo innamorato d’una statua, ecc.
L’improvvisazione relega in secondo piano l’ordine delle parti (dispositio); il discorso, è ormai senza scopo di persuadere, puramente ostentatorio, si destruttura, si atomizza in una serie slegata di pezzi brillanti, giustapposti secondo un modello rapsodico. Di questi pezzi il principale (che beneficiava d’una quotazione assai grossa) era la descriptio. L’ekphrasis è un frammento antologico, trasferibile da un discorso ad un altro: è una descrizione regolata di luoghi, di personaggi (origine dei topoi del Medioevo). Appare così una nuova unità sintagmatica, il “pezzo”: meno esteso delle parti tradizionali del discorso, più grande del periodo; questa unità (paesaggio, ritratto) lascia il discorso oratorio (giuridico, politico) e s’integra facilmente nella narrazione, nel continuo romanzesco: ancora una volta la recita “morde” sul fatto letterario.
A.5.3.. Atticismo, asianesimo.
Sul piano paradigmatico, la neoretorica consacra l’assunzione dello «stile”, valorizza a fondo gli ornamenti seguenti: l’arcaismo, la metafora caricata, l’antitesi, la clausola ritmica. Questo barocchismo chiedeva una contropartita, ed una lotta s’ingaggiò tra due scuole:
1) l’atticismo difeso in particolare dai grammatici, dai custodi dei vocabolario puro (morale castratrice della purezza, che esiste ancor oggi);
2) l’asianesimo rimanda, in Asia Minore, allo sviluppo d’uno stile esuberante fino alla stravaganza, fondato, come il manierismo, sull’effetto di sorpresa; le «figure” vi giocano un ruolo essenziale.
28
B. 0. 4. La macchina retorica.
Se, dimenticando questa posta o per lo meno optando risolutamente per l’avvio aristotelico, si sovrimprimono in certo qual modo le sotto-classificazioni dell’antica retorica, si ottiene una distribuzione canonica delle diverse parti della tecnè, un reticolo, un albero, o piuttosto una grande liana che scende di grado in grado, sia dividendo un elemento generico, sia raccogliendo delle parti sparse. Questo reticolo è un montaggio. Si pensi a Diderot e alla macchina per far calze: «On peut la regarder comme un seul et unique raisonnement dont la fabrication de l’ouvrage est la conclusion...” (Si può considerare come un solo ed unico ragionamento di cui la fabbricazione dell’opera è la conclusione...).
Nella macchina di Diderot, quello che viene infornato all’entrata, è del materiale tessile, quello che si trova all’uscita sono delle calze. Nella “macchina” retorica, ciò che si mette all’inizio, emergendo a pena da una nativa afasia, sono dei materiali bruti di ragionamento, dei fatti, un “soggetto”; ciò che si forma alla fine è un discorso completo, strutturato, completamente armato per la persuasione.
B.O.5. Le cinque parti della tecnè retorikè
La nostra linea di partenza sarà dunque costituita dalle differenti operazioni-madri della tecnè (si comprende da quanto precede che collegheremo l’ordine delle parti, la dispositio, alla tecnè e non all’oratio: è quello che fa Aristotele).
Nella sua estensione più grande la tecnè comprende cinque operazioni principali; bisogna insistere sulla natura attiva, transitiva, programmatica, operatoria, di queste divisioni: non si tratta degli elementi d’una struttura, ma degli atti d’una strutturazione progressiva, come mostra bene la forma verbale (per verbi) delle definizioni:
1.
INVENTIO
in venire quid dicas
 trovare cosa dire
2.
 DISPQSITIO
inventa disponere
mettere in ordine quel che si è trovato
3.
ELOCUTIO
ornare verbis
aggiungere l’ornamento delle figure
4.
ACTIO
agere et pronuntiare
recitare il discorso come un attore: gesti e dizione
5.
MEMORIA
memoriae mandare
 ricorrere alla memoria
Le prime tre operazioni sono le più importanti (Inventio, Dispositio, Elocutio); ognuna sostiene un reticolo ampio e sottile di nozioni e tutte e tre hanno alimentato la retorica dopo l’antichità (soprattutto l’Elocutio). Le ultime due (Actio et Memoria) sono state sacrificate molto presto, fin da quando la retorica non ha più poggiato soltanto sui discorsi parlati (declamati) di avvocati o di uomini politici o di “conferenzieri” (genere epidittico), ma anche, e poi quasi esclusivamente, su “opere” (scritte). Nessun dubbio però che queste due parti presentino un grande interesse: la prima (actio) poiché rinvia ad una drammaturgia della parola (cioè ad un’isteria e ad un rituale); la seconda perché postula un livello degli stereotipi, una intertestualità fissa, trasmessa meccanicamente. Ma dato che queste ultime due operazioni sono assenti dall’opera (opposta all’oratio) e dato che, anche presso gli Antichi, non hanno dato luogo ad alcuna classificazione (ma solo a brevi commenti), le elimineremo qui dalla macchina retorica. Il nostro albero dunque comprenderà soltanto tre ceppi:
1) INVENTIO,
2) DISPOSITIO,
3) ELOCUTIO.
Precisiamo comunque che tra il concetto di tecnè questi tre avvii si interpone ancora un livello: quello dei materiali “sostanziali” del discorso: Res et Verba.
Non ritengo che si debba semplicemente tradurre con le Cose e le Parole.
Res, dice Quintiliano, sono quae signìficantur, e Verba, quae significant; quindi, al livello del discorso, i significati ed i significanti.
Res, è ciò che è già promesso al senso, costituito fin dall’inizio come materiale di significazione verbum, è la forma che sta già cercando il senso per renderlo completo. È il paradigma res/verba che conta, è la relazione, la complementarietà, lo scambio, non la definizione di ciascuno dei termini.
La Dispositio poggia insieme sui materiali (res) e sulle forme discorsive (verba).
B.1.   L’Inventio.
B.1.1.  Scoperta e non invenzione.
L’inventio rinvia non tanto ad una invenzione (degli argomenti) quanto ad una scoperta: tutto esiste già, bisogna solo ritrovarlo: è una nozione più « estrattiva” che “creativa». Il che è corroborato dalla designazione di un “luogo” (la Topica), da cui si possono estrarre gli argomenti e da cui essi vanno ripresi: l’inventio è un percorso (via argumentorum). Questa idea dell’inventio implica due sentimenti: da una parte, una fiducia molto ferma nel potere d’un metodo, d’una via: se si getta la rete delle forme argomentative sui materiale, con una buona tecnica, si è sicuri di riportare il contenuto d’un eccellente discorso; dall’altra, la convinzione che lo spontaneo, l’ametodico non porta a niente: al potere della parola finale corrisponde un nulla della parola originale; l’uomo non può parlare se non gli si fa partorire la parola e per questo parto c’è una tecnè particolare, l’inventio.
B. 1.2. Convincere/commuovere
Dall’inventio partono due grandi vie, una logica, l’altra psicologica: convincere e commuovere. Convincere (fidem lacere) richiede un apparato logico o pseudo-logico che, all’incirca, viene chiamato Probatio (campo delle “Prove”): attraverso il ragionamento, si tratta di fare una giusta violenza allo spirito dell’ascoltatore, il cui carattere e disposizioni psicologiche non entrano ancora in conto: le prove hanno una loro forza propria.
Commuovere (animos impellere) consiste, al contrario, nel pensare il messaggio probatorio, non in sé, ma secondo la sua destinazione, l’umore di chi deve riceverlo, nel mobilitare le prove soggettive, morali. Discenderemo dapprima il lungo cammino della probatio (convincere), per tornare poi al secondo termine della dicotomia iniziale (commuovere). Tutte queste “discese” saranno riprese graficamente, sotto forma d’albero, nell’annesso.
B.1.3.  Prove nella-tecnica e prove fuori-tecnica.
Le prove? Si conserverà la parola per abitudine, ma c’è tra noi una connotazione scientifica la cui assenza appunto definisce le “prove” retoriche. Sarebbe meglio dire: delle ragioni probanti, delle vie di persuasione, dei mezzi di credito, dei mediatori di fiducia (fides). La divisione binaria delle “prove” retoriche è celebre; si hanno ragioni che sono al di fuori della tecnè e ragioni che fanno parte della tecnè  (latino: probationes inartificiales/artificiales; in francese (B. Lamy): extrinsèques/intrinsèques. Questa opposizione non è difficile da capire se ricordiamo bene cosa sia una tecnè: una istituzione speculativa dei mezzi di produrre quello che può essere o non può essere, vale a dire quello che non è né scientifico (necessario) né naturale.
Le prove extra-tecniche sono dunque quelle che sfuggono alla libertà di creare l’oggetto contingente; si trovano al di  fuori dell’oratore (dell’operatore della tecnè); sono delle ragioni inerenti alla natura dell’oggetto. Le prove tecniche (nella tecnè) dipendono invece dal potere - ragionato dell’oratore.
B. 1.4. Prove extra-tecniche.
Cosa può l’oratore sulle prove? Non può addurle (indurle o dedurle); può soltanto, dato che sono in sé “inerti”, combinarle, farle valere attraverso una disposizione metodica.
Quali sono?
Sono frammenti del reale che passano direttamente nella dispositio, fatti semplicemente valere, e non trasformati; o ancora: sono degli elementi del dossier che non si possono inventare (dedurre) e che sono forniti dalla causa in sé, dal cliente (siamo per ora nel campo giudiziario). Queste “prove” sono classificate nella maniera seguente: ci sono:
1) i praejudicia, le sentenze anteriori, la giurisprudenza (il problema è di distruggerli senza attaccarli di fronte);
2) i rumores, la voce pubblica, il consensus di tutta una città;
3) le confessioni sotto tortura (tormenta, quaesita): non un sentimento morale, ma un sentimento sociale nei confronti della tortura: l’antichità ammetteva il diritto di torturare gli schiavi, non gli uomini liberi;
4) gli atti (tabulae): contratti, accordi, transazioni tra privati, fino alle relazioni forzose (furto, assassinio, brigantaggio, oltraggio);
5) il giuramento (jusjurandum): è l’elemento di tutto un gioco combinatorio, d’una tattica, di un linguaggio: si può accettare, rifiutare di giurare, si accetta, si rifiuta il giuramento dell’altro, ecc.;
6) le testimonianze (testimonia): sono essenzialmente, almeno per Aristotele, delle testimonianze nobili, tratte sia da poeti antichi (Solone che cita Omero per sostenere le pretese di Atene su Salamina), sia da proverbi, sia da contemporanei importanti; sono quindi piuttosto delle «citazioni”.
B.1.5.  Senso degli atecnoi
Le prove «estrinseche» sono proprie al campo giudiziario (i rumores e i testimonia possono servire al deliberativo e all’epidittico); ma si può immaginare che servano in privato, per giudicare un’azione, sapere se si devono fare delle lodi. È quel che fa Lamy. Per questa via, queste prove estrinseche possono alimentare delle rappresentazioni di finzione (romanzo, teatro); bisogna però fare attenzione: non si tratta di indices, che fanno parte invece del ragionamento; sono semplicemente gli elementi d’una pratica che viene dall’esterno, da un reale già istituzionalizzato; in letteratura, queste prove servirebbero a comporre dei romanzi-dossier (ed è capitato), che rinuncerebbero ad ogni scrittura concatenata, ad ogni rappresentazione collegata e darebbero soltanto frammenti del reale già costituiti in linguaggio dalla società. È appunto il senso degli atecnoi: sono elementi costituiti del linguaggio sociale, che passano direttamente nel discorso, senza essere trasformati da nessuna operazione tecnica dell’oratore, dell’autore.
B.1.6.  Prove nella tecnè.
A questi frammenti del linguaggio sociale, dati direttamente, allo stato bruto (eccetto la valorizzazione di una collocazione) s’oppongono i ragionamenti che, invece, dipendono interamente dal potere dell’oratore, che fanno parte di una pratica dell’oratore, perché il materiale viene trasformato in forza persuasiva da una operazione logica. Questa operazione, a rigore, è doppia: induzione e deduzione.
Si dividono quindi in due tipi:
1) l’exemplum (induzione);
2) l’entimema. (deduzione);
si tratta evidentemente di una induzione e d’una deduzione non scientifiche, ma semplicemente “pubbliche” (per il pubblico). Queste due vie sono costrittive: Tutti gli oratori, per produrre la persuasione, dimostrano con degli esempi o degli entimemi; non vi sono altri mezzi se non questi (Aristotele).
Eppure una specie di indifferenza, quasi estetica, una differenza di stile, si è introdotta tra l’esempio e l’entimema: l’exemplum produce una persuasione più dolce, meglio apprezzata dal volgo; è una forza luminosa, che abbellisce il piacere inerente ad ogni comparazione; l’entimema, più possente, più vigoroso, produce una forza violenta, sconvolgente, beneficia della energia del sillogismo; opera un vero rapimento, è la prova, in tutta la forza della sua purezza, della sua essenza.
B. 1.7. L’exemplum.
L’exemplum è l’induzione teorica: si procede da un particolare ad un altro particolare per l’anello implicito del generale: da un oggetto si inferisce la classe, poi da questa classe si deduce un nuovo oggetto. L’exemplum può avere qualsiasi dimensione,
può essere una parola, un fatto, un insieme di fatti ed il racconto di questi fatti. È una similitudine persuasiva, un argomento per analogia: si trovano buoni exempia se si ha il dono di vedere le analogie — ed anche, naturalmente, i contrari; come in dica il suo nome greco, si situa dalla parte del paradigmatico, del metaforico. Fin da Aristotele, l’exempium si divide in reale e fittizio; il fittizio si suddivide in parabola e favola; il reale copre esempi storici ma anche mitologici, in opposizione, non all’immaginario, ma a quanto viene inventato da sé; la parabola è una comparazione corta, la favola un insieme di azioni. Ciò indica la natura narrativa dell’exemplum, destinato storicamente ad espandersi.
B. 1.8. La figura esemplare: l’imago.
All’inizio del I secolo a. C., una nuova forma d’exemplum appare: il personaggio esemplare (imago) designa l’incarnazione d’una virtù in una figura.
Cato illa virtutum viva imago (Cicerone).
Un repertorio di queste imago viene istituito ad uso delle scuole di Retoni (Valerio Massimo, sotto Tiberio: Factorum ac dictorum memorabilium libri novem), seguito più tardi da una versione in versi. Questa collezione di figure ha un’immensa fortuna nel Medioevo; la poesia colta propone il canone definitivo di questi personaggi, vero Olimpo d’archetipi che Dio ha posto nel flusso della storia; l’imago virtutis s’impadronisce a volte di personaggi molto secondari, votati ad una immensa fortuna, come Amiclate, il battelliere che trasportò “Cesare e la sua fortuna” dall’Epiro a Brindisi, durante una tempesta (= povertà e sobrietà); vi sono numerose imago nell’opera di Dante. Il fatto stesso che si sia potuto costituire un repertorio di exempla sottolinea appunto quel che potremo chiamare la vocazione strutturale dell’exempium: è un pezzo staccabile, che comporta espressamente un senso (ritratto eroico, racconto agiograflco); a questo punto si comprende come possiamo seguirlo fin nella scrittura, discontinua ed allegorica insieme, della grande stampa contemporanea: Churchill, Giovanni XXIII sono delle imago, degli esempi destinati a persuaderci che bisogna essere coraggiosi, bisogna essere buoni.
B.1.9.  Argumenta.
Di fronte all’exemplum, modo persuasivo per induzione, c’è il gruppo dei modi per deduzione, gli argumenta. L’ambiguità della parola argumentum è significativa. Il senso usuale antico è: soggetto d’una favola scenica (l’argomento d’una commedia di Plauto), o anche: azione articolata (in opposizione all’insieme d’azioni). Per Cicerone è nello stesso tempo «una cosa fittizia, che avrebbe potuto accadere» (il plausibile) ed “una idea verosimile impiegata per convincere”, e di questa Quintiliano precisa meglio la portata logica: “maniera di provare una cosa per mezzo di un’altra, di confermare ciò che è dubbio per mezzo di ciò che non lo è”. Appare così una duplicità importante: quella d’un ragionamento (“qualunque forma di ragionamento pubblico” dice un retore) impuro, facilmente drammatizzabile, che partecipa ad un tempo dell’intellettuale e del fittizio, del logico e del narrativo (non si ritrova forse
quest’ambiguità in tanti saggi moderni?). L’apparato degli argumenta che inizia qui e s’avvia ad esaurire fino in fondo tutta la probatio, s’apre su di un elemento portante, tabernacolo della piova deduttiva, l’entimema, detto talvolta commentum, commentatio (ogni riflessione che si ha in mente), ma, il più delle volte, con una sineddoche significativa: argumentum.
B.1.10. L’entimema.
L’entimema ha ricevuto due significazioni successive (che non sono contraddittorie). I.
Per gli aristotelici, è un sillogismo fondato su verisimiglianze o su segni e non sul vero e l’immediato (com’è il caso del sillogismo scientifico); l’entimema è un sillogismo retorico, svolto unicamente al livello del pubblico (nel senso di: mettersi a livello di qualcuno), a partire dal probabile, cioè a partire da quello che pensa il pubblico; è una deduzione il cui valore è concreto, istituito in vista di una presentazione (è una specie di spettacolo accettabile), in opposizione alla deduzione astratta, fatta unicamente per l’analisi; è un ragionamento pubblico, maneggiato con facilità da uomini incolti. In virtù di quest’origine, l’entimema procura la persuasione, non la dimostrazione; per Aristotele, l’entimema è definito a sufficienza dal carattere verisimile delle sue premesse (il verisimile ammette dèi contrari): di qui la necessità di definire e classificare le premesse dell’entimema stesso.
 lI.
A partire da Quintiliano e con un trionfo completo durante il Medioevo (dopo Boezio), prevale una nuova definizione: l’entimema viene definito, non attraverso il contenuto delle sue premesse, ma dal carattere ellittico della sua articolazione; è un sillogismo incompleto, un sillogismo scorciato; non ha né tante parti, né così distinte quanto il sillogismo filosofico: si può sopprimere una delle due premesse o la conclusione: allora è un sillogismo tronco per la soppressione (nell’enunciato) d’una proposizione la cui realtà sembra agli uomini incontestabile e che, per questa ragione, viene semplicemente “tenuta in mente”). Se si applica questa definizione a quel sillogismo, maestro di tutta la cultura, che ci riconferma in modo bizzarro la nostra morte — e per quanto la premessa non sia semplicemente probabile, si che non si potrebbe farne un entimema nel senso I —, si può avere l’entimema seguente: Socrate è mortale perché gli uomini lo sono. Sarebbe preferibile a questo modello funebre, l’esempio più attuale proposto da Port Royal:
Ogni corpo che riflette la luce da ogni parte è scabro, ora la luna riflette la luce da ogni parte; dunque la luna è un corpo scabro, e tutte le forme entimematiche che se ne possono estrarre (la luna è scabra perché riflette la luce in ogni parte, ecc.). Questa seconda definizione dell’entimema in effetti è soprattutto, quella della Logica di Port-Royal e si vede assai bene perché (o come): l’uomo classico crede che il sillogismo sia già fatto nella mente (“il numero di tre proposizioni è abbastanza proporzionato all’estensione della nostra mente”); se l’entimema è un sillogismo imperfetto, può esserlo quindi soltanto al livello del linguaggio (che non è quello dello “spirito”): è un sillogismo perfetto nella mente, ma imperfetto nell’espressione; è insomma un incidente di linguaggio, uno scarto.
B.1.11.            Metamorfosi dell’entimema.
Ecco alcune varietà di sillogismi retorici:
1) il prosillogismo, concatenamento di sillogismi in cui la conclusione dell’uno diventa la premessa del successivo;
2) il sorites (il cumulo), accumulazione di premesse o sequenza di sillogismi tronchi; 3) l’epicherema (spesso commentato nell’antichità), o sillogismo sviluppato, in cui ciascuna premessa è accompagnata dalla sua prova; la struttura epicherematica può estendersi ad ogni discorso in cinque parti: proposizione, ragione della maggiore, assunzione o minore, prova della minore, complexio o conclusione: A... perché... Ora B... perché... Quindi C;
4) l’entimema apparente, o ragionamento fondato su di uno scambietto, un gioco di parole;
5) la massima (sententia): forma molto ellittica, monodica, è un frammento d’entimema di cui il resto è virtuale: «non bisogna mai dare ai propri figli un eccesso di sapere (perché saranno oggetto dell’invidia dei loro concittadini).
Con evoluzione significativa, la sententia migra dall’inventio (dal ragionamento, dalla retorica sintagmatica) all’elocutio, allo stile (figure di amplificazione o di diminuzione); nel Medioevo si espande, contribuendo alla formazione d’un tesoro di citazioni su tutti i soggetti del sapere; frasi, versi gnomici imparati a memoria, collezionati, classificati per ordine alfabetico.
B.1.12. Gusto dell’entimema.
Dato che il sillogismo retorico è fatto per il pubblico (e non sotto lo sguardo della scienza), le considerazioni psicologiche sono pertinenti ed Aristotele vi insiste. L’entimema ha il diletto d’un percorso, d’un viaggio: si parte da un punto che non ha bisogno di essere provato e di qui si va verso un altro punto che ha bisogno di esserlo; si ha la piacevole sensazione (anche se questa deriva da una forza) di scoprire cose nuove per una sorta di contagio naturale, di capillarità che sviluppa il conosciuto (l’opinabile) verso lo sconosciuto. Eppure, per esprimere tutto il suo piacere, questo tragitto va sorvegliato: il ragionamento non deve essere preso da troppo lontano e non si deve passare per tutti i suoi gradi per concludere: cosa che stancherebbe (l’epicherema dev’essere utilizzato soltanto nelle grandi occasioni); dato che, bisogna fare i conti con l’ignoranza degli ascoltatori (l’ignoranza è precisamente questa incapacità d’inferire attraverso più gradi e di seguire a lungo un ragionamento); o piuttosto: questa ignoranza bisogna sfruttarla dando all’ascoltatore la sensazione ch’è proprio lui a farla cessare, con la sua stessa forma mentale: l’entimema non è un sillogismo tronco per carenza, degradazione, ma perché va lasciato all’ascoltatore il piacere di fare tutto lui nella costruzione dell’argomento:
è un po’ il gusto che si prova nel completare da soli una data griglia (crittogrammi, giochi, parole incrociate). Port Royal, per quanto giudichi sempre manchevole il linguaggio in rapporto alla mente — e l’entimema è un sillogismo di linguaggio — riconosce questo gusto del ragionamento incompleto: « Questa soppressione (d’una parte del sillogismo) lusinga la vanità di quelli a cui parliamo, rimettendosi in qualcosa alla loro intelligenza e scorciando il discorso, essa lo rende più forte e più vivo“; è però evidente il mutamento morale (in rapporto ad Aristotele): il gusto all’entimema è ricondotto meno ad una autonomia creatrice dell’ascoltatore che ad un eccellere della concisione, trionfalmente data come il segno d’un surplus del pensiero sul linguaggio (il pensiero vince d’una lunghezza sul linguaggio): “...una delle principali attrattive d’un discorso è quella di essere pieno di senso e di dare occasione allo spirito di formare un pensiero più sviluppato di quanto non sia l’espressione...”
B.1.13. Le premesse entimematiche.
Il luogo da cui partiamo per fare il piacevole tragitto dell’entimema sono le premesse. Questo luogo è conosciuto, certo, ma non è la certezza scientifica: è la nostra certezza umana. Cosa consideriamo quindi come certo?
1) ciò che cade sotto i nostri sensi, quel che vediamo e sentiamo: gli indizi sicuri;
2) ciò che cade sotto il senso, quello su cui gli uomini sono generalmente d’accordo, ciò che è stabilito dalle leggi, quel che è passato nell’uso (“esistono degli dei”, “bisogna onorare i genitori”, ecc.): sono le verisimiglianze o, genericamente, il verisimile;
3) tra questi due tipi di “certezza” umana, Aristotele pone una categoria più vaga: i  segni (una cosa che serve a farne intendere un’altra, per quod alia res intelligitur).
B.1.14. L’indizio sicuro.
L’indizio sicuro è il segno necessario, o ancora “il segno indistruttibile”, quello che è ciò che è e che non può essere altrimenti. Una donna ha partorito: è l’indizio sicuro  che ha avuto commercio con un uomo. Questa premessa si avvicina molto a quella che inaugura il sillogismo scientifico, per quanto riposi solo su di una universalità d’esperienza. Come sempre, quando viene esumato questo vecchio materiale logico (o retorico), si è colpiti dal fatto di vederlo funzionare perfettamente a suo agio nelle opere della cultura detta di massa — al punto che ci si potrebbe domandare se Aristotele non sia il filosofo di questa cultura e non fondi di conseguenza la critica che può farvi presa; queste opere infatti mobilitano correntemente delle “evidenze” fisiche, che servono come avvio a ragionamenti impliciti, ad una certa percezione razionale dello svolgimento del fatto. In Goldfinger, c’è una fulminazione nell’acqua: cosa nota che non ha bisogno d’essere fondata, è una premessa naturale; altrove (nello stesso film) una donna muore perché il suo corpo è stato coperto d’oro; qui bisogna sapere che la pittura in oro impedisce alla pelle di respirare e provoca quindi l’asfissia: il che, in quanto raro, deve essere fondato (da una spiegazione), non è dunque un indizio sicuro o per lo meno è “sganciato” fino ad una certezza antecedente (l’asfissia fa morire). V
a da sé che gli indizi sicuri non hanno, storicamente, la bella stabilità che presta loro Aristotele: il “certo” pubblico dipende dal “sapere” pubblico e questo varia con i tempi e le società; per riprendere l’esempio di Quintiliano, mi è stato assicurato che certe  popolazioni non stabiliscono alcuna causalità tra il parto ed il rapporto sessuale (il bambino dorme nella madre, Dio lo risveglia).
B.1.15. Il verisimile.
Il secondo tipo di «certezza” (umana, non scientifica) che può servire da premessa all’entimema è il verisimile, nozione capitale agli occhi di Aristotele. È un’idea generale che riposa sul giudizio che gli uomini si son fatti attraverso esperienze ed induzioni imperfette (Perelman propone di chiamarlo il preferibile). Nel verisimile aristotelico stanno due nuclei:
1) l’idea di generale, in quanto si oppone all’idea di universale; l’universale è necessario (è l’attributo della scienza), il generale è non necessario; è un “generale” umano, determinato insomma statisticamente dall’opinione del più gran numero di persone;
2) la possibilità di contrarietà; certamente l’entimema è recepito dal pubblico come un sillogismo sicuro, sembra partire da una opinione a cui si crede in generale “in modo inflessibile”; ma, in rapporto alla scienza, il verisimile invece ammette il contrario: nei limiti dell’esperienza umana e della vita morale, il contrario non è mai impossibile: non si possono prevedere in modo certo (scientifico) le decisioni d’un essere libero: “chi ben si comporta, vedrà il giorno domani “, “un padre ama i suoi figli”, “un furto commesso senza effrazione dentro la casa è stato commesso da un familiare”, ecc. e sia, ma il contrario è sempre possibile; l’analista, il retore sentono certo la forza di queste opinioni, ma in tutta onestà, le tengono a distanza, introducendole con un esto (sia) che li sgrava agli occhi della scienza, dove il contrario non è mai possibile.
B.1.16. Il segno.
Il segno, terzo punto di partenza possibile dell’entimema, è un indizio più ambiguo, meno sicuro del precedente. Tracce di sangue fanno supporre un delitto, ma non è sicuro: il sangue può provenire da una perdita dal naso, o da un sacrificio. Perché il segno sia probante, ci vogliono altri segni concomitanti; o ancora, perché il segno cessi di essere polisemico, bisogna ricorrere a tutto un contesto. Atalanta non era vergine, dato che frequentava dei giovanotti: per Quintiliano, resta da provare; la proposizione è addirittura così incerta che egli rigetta il segno fuori dalla tecnè dell’oratore: questi non potrebbe usare de i segni per trasformarli, attraverso la
conclusione entimematica, in certezza.
B.1.17. Pratica dell’entimema.
Nella misura in cui l’entimema è un ragionamento “pubblico”, era lecito estenderne la pratica fuori dal campo giudiziario ed è possibile ritrovarlo fuori dalla retorica (e dell’antichità). Aristotele stesso ha studiato il sillogismo pratico, o entimema che ha come conclusione un atto decisorio; la premessa maggiore è occupata da una massima corrente; nella minore, l’agente (io stesso ad esempio) constata che si trova nella situazione accertata dalla maggiore; conclude con una decisione di comportamento. Com’è allora che tanto spesso la conclusione contraddice la premessa maggiore e che l’azione resiste alla conoscenza? È perché, molto spesso, tra la premessa maggiore e la minore, c’è una deviazione: la minore implica surrettiziamente un’altra maggiore: “Bere dell’alcool è nocivo all’uomo, ora io sono un uomo, quindi non devo bere”, eppure malgrado questo bell’entimema, io bevo; il fatto è che io mi riferisco “alla chetichella” ad un’altra premessa maggiore: il frizzante ed il ghiacciato dissetano, rinfrescarsi fa bene (premessa maggiore ben conosciuta dalla pubblicità e dalle conversazioni da caffè). Altra estensione possibile dell’entimema: nei linguaggi «freddi» e raziocinanti, isolati e pubblici insieme, quali i linguaggi istituzionali (la diplomazia pubblica ad esempio): degli studenti cinesi hanno manifestato davanti all’ambasciata americana a Mosca (marzo 1965), la manifestazione è stata repressa dalla polizia russa ed il governo cinese ha protestato contro questa repressione; la nota sovietica risponde alla protesta cinese con un bell’epicherema, degno di Cicerone:
1) Premessa maggiore: opinione generale: esistono delle norme diplomatiche rispettate in tutti i paesi;
2) Prova della maggiore: gli stessi cinesi rispettano, nel loro paese, queste norme d’ospitalità;
3) Premessa minore: ora gli studenti cinesi, a Mosca, hanno violato queste norme;
4) Prova della minore: è il racconto della manifestazione (ingiurie, vie di fatto ed altri atti che cadono sotto l’autorità del codice penale);
5) La conclusione non è enunciata (è un entimema), ma è chiara; è la nota stessa in quanto rigetta la protesta cinese: l’avversario è stato posto in contraddizione con se stesso.
B.1.18.            Il luogo, locus.
Una volta distinte le classi di premesse entimematiche, queste classi devono ancora essere attrezzate e vanno trovate delle premesse: ci sono le grandi forme, ma come inventare i contenuti? È sempre la stessa angosciosa questione che la retorica pone e cerca di risolvere: che dire?
Di qui l’importanza della risposta, attestata dall’ampiezza e dalla fortuna di questa parte della Inventio, che è incaricata di fornire contenuti al ragionamento e che intraprendiamo ora: la Topica. Le premesse infatti possono essere tratte da certi luoghi. Cos’è un luogo?
È, dice Aristotele, ciò su cui converge una pluralità di ragionamenti oratori. I luoghi, dice Port Royal, sono “certi capi generali ai quali possono rapportarsi tutte le prove di cui ci si serve nelle diverse materie da trattare”; o ancora (Lamy): “dei pareri generali che fanno ricordare a quelli che li consultano tutte le facce sotto cui considerare un soggetto”. Eppure, l’approccio metaforico al luogo è più significativo della sua definizione astratta. Ci si è serviti di molte metafore per identificare il luogo. In primo luogo, perché luogo? Perché, dice Aristotele, per ricordarsi delle cose basta ricordarsi i luoghi in cui esse si trovano (il luogo quindi è un elemento d’una associazione d’idee, d’un condizionamento, d’un addestramento, d’una mnemonica); i luoghi non sono dunque gli argomenti in sé, ma gli scomparti nei quali vengono disposti. Di qui, tutte le immagini che congiungono l’idea d’uno spazio a quella d’una riserva, d’una localizzazione e d’una estrazione: una regione (dove si possono trovare degli argomenti), una vena d’un certo minerale, un cerchio, una sfera, una fonte, un pozzo, un arsenale, un tesoro ed anche una piccionaia (W. D. Ross); “I luoghi, dice Dumarsais, sono le cellette in cui tutti possono andare a prendere, per così dire, la materia d’un discorso e gli argomenti su ogni tipo di soggetto”. Un logico scolastico, sfruttando la natura domestica del luogo, lo compara ad una etichetta che indica il contenuto d’un recipiente; per Cicerone, gli argomenti, che provengono dai luoghi, si presenteranno da sé ai fini della causa da trattare, “come le lettere per le parole da scrivere: i luoghi formano dunque questa particolarissima riserva che costituisce l’alfabeto: un corpo di forme prive di senso in sé, ma che concorrono al senso per selezione, combinazione, attualizzazione. In relazione al luogo, cos’è la Topica? Sembra possibile distinguere tre definizioni successive, o almeno tre orientamenti del termine.
La Topica è — o è stata: 1) un metodo, 2) una griglia di forme vuote, 3) una riserva di forme piene.
B.1.19. La Topica: un metodo.
Originariamente in  Aristotele la Topica è stata una raccolta dei luoghi comuni della dialettica, cioè del sillogismo fondato sul probabile (intermediario tra la scienza ed il verisimile); poi Aristotele ne fa un metodo, più pratico della dialettica: quello che “ci pone in grado, su di un qualunque soggetto proposto, di fornire delle conclusioni tratte da ragioni verisimili”. Questo senso metodico è riuscito a durare o almeno a risorgere lungo tutta la storia retorica: sarà allora l’arte (sapere organizzato in vista dell’insegnamento: disciplina) di trovare gli argomenti (Isidoro), o ancora: un msteme di «mezzi brevi e facili per trovare la materia di discorrere anche su soggetti che sono interamente sconosciuti” (Lamy) — e si comprendono i sospetti della filosofia verso un simile metodo.
B. 1.20. La Topica: una griglia.
Il secondo senso è quello d’un reticolo di forme, d’un percorso quasi cibernetico a cui viene sottoposta la materia che si vuoi trasformare in discorso persuasivo. Bisogna rappresentarsi le cose in questo modo: un soggetto (quaestio) viene assegnato all’oratore; per trovare degli argomenti, l’oratore, « accompagna” il suo soggetto lungo una griglia di forme vuote: dal contatto tra il soggetto e ogni riquadro (ogni “luogo”) della griglia (della Topica) sorge un’idea possibile, una premessa d’entimema. È esistita nell’antichità una versione pedagogica di questo procedimento: la creia o esercizio “utile”, era una prova di virtuosismo imposta agli allievi, che consisteva nel far passare un tema attraverso una serie di luoghi: quis? quid? ubi? quibus auxiiis? cur? quomodo? quando?
 Ispirandosi alle antiche retoriche, Lamy, nel XVII secolo, propone la griglia seguente: il genere, la differenza, la definizione, l’enumerazione delle parti, l’etimologia, i correlati (è il campo associativo del radicale), la comparazione, la repugnanza, gli effetti, le cause, ecc.
Supponiamo di dover fare un discorso sulla letteratura: “stecchiamo” (e con ragione), ma fortunatamente disponiamo della topica di Lamy: possiamo allora, per lo meno, porci delle domande e tentare di rispondervi: a quale “genere” riferiremo la letteratura? arte? discorso? produzione culturale? Se è un”’ arte”, che differenza c’è con le altre arti. Quante parti assegnarle e quali? Cosa c’ispira l’etimologia del vocabolo? il suo rapporto con i vicini morfologici (letterario, letterale, lettere, letterato, ecc.)? Con che cosa sta la letteratura in rapporto di ripugnanza? il Danaro? la Verità? ecc. La congiunzione della griglia e della quaestio è simile a quella del tema e dei predicati, del soggetto e degli attributi: “la topica attributiva” ha il suo apogeo nelle tavole dei Lullisti (ars brevis): gli attributi generali sono delle spècie di luoghi. È  chiaro qual è la portata della griglia topica: le metafore che indicano il luogo, non lo indicano a sufficienza; gli argomenti si nascondono, stanno tappati dentro regioni, profondità, assise da cui bisogna richiamarli, risvegliarli: la Topica partorisce del latente; è una forma che articola dei contenuti e produce così dei frammenti di senso, delle unità intelligibili.
B.1.21. La Topica: una riserva.
I luoghi sono, in linea di principio, delle forme vuote; ma queste forme hanno avuto presto tendenza a riempirsi sempre allo stesso modo, a portare con loro dei contenuti, dapprima contingenti, poi ripetuti, reificati. La Topica è divenuta una riserva di stereotipi, di temi consacrati, di “pezzi” pieni che vengono piazzati quasi obbligatoriamente nel trattamento d’ogni soggetto. Di qui l’ambiguità storica dell’espressione luoghi comuni:
1) si tratta di forme vuote, comuni a tutti gli argomenti;
2) sono degli stereotipi, delle proposizioni ripetitive.
La Topica, riserva piena: questo senso non è affatto quello d’Aristotele, ma è già quello dei sofisti: questi avevano sentito la necessità d’avere una tavola delle cose di cui comunemente si parla e sulle quali non ci si deve “far incastrare”. Questa reificazione della Topica è continuata regolarmente, al di là di Aristotele, attraverso gli autori latini; ha trionfato nella neoretorica ed è stata assolutamente generale nel Medioevo. Curtius ha recensito questi temi obbligati, accompagnati dal loro trattamento fisso. Ecco alcuni di questi luoghi reificati (nel Medioevo):
1) topos  della modestia affettata: ogni oratore deve dichiarare che è schiacciato dal soggetto, che è incompetente e che non è certo civetteria dirlo, ecc. (excusatio propter infirmitatem);
2) topos  del puer senilis: è il tema magico dell’adolescente dotato d’una perfetta saggezza o del vecchio fornito della bellezza e della grazia della giovinezza;
3) topos del locus amoenus: il paesaggio ideale, Elisio o Paradiso (alberi, boschetti, fonte e prati) ha fornito un buon numero di «descrizioni” letterarie, ma l’origine è giudiziaria: ogni relazione dimostrativa di una causa obbligava all’argumentum a loco:
bisognava fondare le prove sulla natura del luogo in cui l’azione s’era svolta; la topografia ha poi invaso la letteratura (da Virgilio a Barrès); una volta reiflcato, il topos ha un contenuto fisso indipendente dal contesto; olivi e leoni vengono collocati nelle regioni del nord: il paesaggio viene staccato dal luogo, dato che la sua funzione è di costituire un segno universale: quello della Natura: il paesaggio è il segno culturale della Natura;
4) gli impossibilia: questo topos  descrive una brusca compatibilità di fenomeni, oggetti, esseri contrari, e questa conversione paradossale funziona come il segno inquietante d’un mondo “ribaltato”: il lupo fugge davanti ai montoni (Virgilio); questo topos fiorisce durante il Medioevo, dove permette di criticare i tempi: è il tema vecchio e brontolone del “se ne vedono di tutte”, o ancora del colmo. Tutti questi topos, anche prima del Medioevo, sono pezzi staccabili (prova della loro forte reificazione), utilizzabili, trasportabili: sono gli elementi d’una combinatoria sintagmatica; la loro collocazione era sottoposta ad una sola riserva: non potevano esser posti nella peroratio (perorazione), che è interamente contingente, perché deve riassumere l’oratio. Eppure allora ed oggi, quante conclusioni stereotipate!
B.1.22. Qualche Topica.
Torniamo alla nostra topica-griglia, perché è questa che ci permetterà di riprendere la “discesa” del nostro albero retorico, di cui forma uno dei grandi punti di distribuzione (di dispatching). L’antichità ed il classicismo hanno prodotto parecchie topiche, definite sia con il raggruppamento affine dei luoghi, sia con quello dei soggetti. Nel primo caso si può citare la Topica Generale di Port Royal, ispirata dal logico tedesco Clauberg (1654); la topica di Lamy, che abbiamo citato, ne ha dato una idea: vi sono i luoghi di grammatica (etimologia, coniugata), i luoghi di logica (genere, proprietà, accidente, specie, differenza, definizione, divisione), i luoghi di metafisica (causa finale, causa efficiente, effetto, tutto, parti, termini opposti); è evidentemente una topica aristotelica. Nel secondo caso, che è quello delle Topiche per soggetti, si possono citare le Topiche seguenti:
1) la topica oratoria propriamente detta; essa comprende di fatto tre topiche: una topica dei ragionamenti, una topica dei costumi (intelligenza pratica, virtù, affetto, devozione) ed una topica delle passioni (collera, amore, timore, vergogna ed i loro contrari);
2) una topica del risibile, parte d’una possibile retorica del comico; Cicerone e Quintiliano hanno enumerato qualche luogo del risibile: difetti del corpo, difetti di spirito, incidenti, esteriorizzazioni, ecc.;
3) una topica teologica: essa comprende le diverse fonti da cui i teologi possono attingere i loro argomenti: Scritture, Padri, Concili, ecc.;
4) una topica sensibile o topica dell’immaginazione; la troviamo abbozzata in Vico: “I fondatori della civiltà (allusione all’anteriorità della Poesia) si dettero ad elaborare una topica sensibile, in cui univano le proprietà, le qualità o i rapporti degli individui o delle specie, che usavano in tutta la loro concretezza per formare il loro genere poetico”; Vico parla altrove degli universali fantastici; è possibile vedere in questa topica sensibile un’antenata della critica tematica, quella che procede per categorie, non per autori, quella di Bachelard, insomma: l’ascensionale, il cavernoso, il torrentizio, lo specchiante, il dormiente, ecc. sono “luoghi” a cui sono sottoposte le “immagini” dei poeti.
B.1.23. I luoghi comuni.
La Topica propriamente detta (topica oratoria, aristotelica), comprende due parti, due sotto-topiche: 1) una topica generale, quella dei luoghi comuni, 2) una topica applicata, quella dei luoghi speciali.
I luoghi comuni (loci communissimi) hanno per Aristotde un senso del tutto diverso da quello che noi attribuiamo a questa espressione (sotto l’influsso del terzo senso della parola Topica, B.1.21.). I luoghi comuni non sono degli stereotipi pieni, ma al contrario, dei luoghi formali: in quanto generali (il generale è proprio del verisimile) sono comuni a tutti i soggetti. Per Aristotele, questi luoghi comuni sono, in tutto e per tutto, tre di numero:
1) il possibile/impossibile; confrontati con il tempo (passato, avvenire), questi termini producono una questione topica: può la cosa esser stata fatta o no, potrà esserlo o no? Questo luogo può applicarsi alle relazioni di contrarietà: se è stato possibile che una cosa sia cominciata, è possibile che finisca, ecc.;
2) esistente/non esistente (o reale/non reale); come il precedente, questo luogo può essere confrontato col tempo: se una cosa non facile ad accadere è tuttavia accaduta, quella più facile è certamente avvenuta (passato); sono qui raccolti dei materiali di costruzione: è probabile che (in avvenire) verrà costruita una casa;
3) più/meno: è il luogo della grandezza e della piccolezza; sua molla principale è « a -maggiore ragione”: vi sono forti possibilità che X abbia battuto i suoi vicini, dato che batte anche il proprio padre. Per quanto i luoghi comuni, per definizione, siano non specializzati, ognuno si adatta meglio ad uno dei tre generi oratori: il possibile/impossibile s’adatta meglio al deliberativo (è possibile far questo?), il
reale/non reale al giudiziario (ha avuto luogo il crimine?), il più/meno all’epidittico (elogio o biasimo).
B.1.24. I luoghi speciali.
I luoghi speciali sono dei luoghi propri a soggetti determinati; sono delle verità particolari, delle proposizioni speciali, accettate da tutti; sono le verità sperimentali connesse alla politica, al diritto, alle finanze, alla marina, alla guerra, ecc.
Però, dato che questi luoghi si confondono con la pratica di discipline, di generi, di soggetti particolari, non è possibile enumerarli. Il problema teorico va comunque posto. Il seguito del nostro albero consisterà dunque nel confrontare l’inventio, quale la conosciamo fino ad oggi e la specificità del contenuto. Questo confronto è la quaestio.
B. 1.25. La tesi e l’ipotesi: causa.
La quaestio è la forma della specificità del discorso. In tutte le operazioni idealmente poste dalla “macchina” retorica, viene introdotta una nuova variabile (che è, per la verità, quando si tratta di fare il discorso, la variabile di partenza): il contenuto, il punto del con-tendere, in breve il referenziale. Questo referenziale, contingente per definizione, può però classificarsi in due grandi forme, che costituiscono i due grandi tipi di quaestio: 1) la posizione o tesi  (pro positum): è una questione generale, “astratta” diremmo oggi, ma tuttavia precisata, riferita (altrimenti non farebbe parte dei luoghi speciali), senza però (ed è il suo contrassegno) nessun parametro di luogo o di tempo (ad esempio: bisogna sposarsi?);
2) l’ipotesi: è una questione particolare, che implica dei fatti, delle circostanze, delle persone, insomma un tempo ed un luogo (ad esempio: X deve sposarsi?); è chiaro che in retorica le parole tesi ed ipotesi hanno un senso del tutto diverso da quello a cui siamo abituati.
Ora l’ipotesi, questo punto di dibattito temporalizzato e localizzato, ha un altro nome e prestigioso: l’ipotesi è la causa. Causa è un negotium, un affare, una combinazione di contingenze svariate; un punto problematico in cui viene impegnata una certa contingenza ed in particolare il tempo. Poiché vi sono tre “tempi” (passato, presente, avvenire) si avranno quindi tre tipi di causa, ed ogni tipo corrisponderà ad uno dei tre generi oratori che già conosciamo: eccoli dunque strumentalmente fondati, situati nel nostro albero retorico.

B.1.26. Status causae.
Di questi tre generi, è quello giudiziario che è stato il meglio commentato nell’antichità; l’albero retorico lo prolunga oltre gli altri. I luoghi speciali del giudiziario si chiamano gli status causae. Lo status causae è il cuore della quaestio, il punto da giudicare; è quel momento in cui si produce il primo scontro tra gli avversari, le parti; in previsione di questo conflitto, l’oratore deve cercare il punto d’appoggio della quaestio. Gli status causae hanno eccitato moltissimo la passione tassonomica dell’antichità. La classificazione più semplice enumera tre status causae (si tratta sempre delle forme che il contingente può assumere):
1) la congettura: ciò ha avuto luogo o no (an sit)? è il primo luogo perché è il risultato immediato d’un primo conflitto d’asserzioni: fecisti / non feci: an fecerit? Sei stato tu a far questo / no, non sono stato io: è stato lui?;
2) la definizione (quid sit?): qual è la qualifica legale del fatto, sotto quale nome (giuridico) sussumerlo? è un crimine? è un sacrilegio?;
3) la qualità (quale sii?): il fatto è permesso, utile, scusabile? È l’ordine delle circostanze attenuanti.
A questi tre luoghi, si aggiunge talora un quarto luogo d’ordine procedurale: è lo stato (status) di ricusazione (campo della Cassazione).
Posti gli status causae, la probatio è esaurita; si passa dall’elaborazione teorica del discorso (la retorica è una pratica speculativa) al discorso vero e proprio; si arriva al punto in cui la “macchina” dell’oratore, dell’ego, deve articolarsi alla macchina dell’avversario, che, da parte sua, avrà fatto lo stesso tragitto, lo stesso lavoro. Questa articolazione, questo ingranarsi è evidentemente conflittuale: è la disceptatio, punto di frizione delle due parti.
85
Eppure, lasciando l’antica retorica, vorrei dire quello che mi resta personalmente di questo viaggio memorabile (discesa del tempo, discesa del reticolo, come d’un doppio fiume). “Quello che mi resta” vuoI dire: le domande che vengono da questo antico impero al mio lavoro presente e che, una volta avvicinata la retorica, non posso più evitare.
In primo luogo la convinzione che molti tratti della nostra letteratura, del nostro insegnamento, delle nostre istituzioni di linguaggio (e vi è forse una sola istituzione senza linguaggio?) sarebbero chiariti o compresi diversamente se si conoscesse a fondo (vale a dire se non si censurasse) il codice retorico che ha dato il suo linguaggio alla nostra cultura; una tecnica, un’estetica, una morale della retorica non sono più possibili, ma una storia? Si, una storia della retorica (come ricerca, come libro, come insegnamento) è oggi necessaria, se allargata da un nuovo modo di pensare (linguistica, semiologia, scienza storica, psicoanalisi, marxismo).
Inoltre, quest’idea che c’è una sorta d’accordo ostinato tra Aristotele (da cui è uscita la retorica) e la cultura detta di massa, come se l’aristotelismo, morto fin dal Rinascimento come filosofia e come logica, morto come estetica fin dal romanticismo, sopravvisse allo stato degradato, diffuso, inarticolato, nella pratica culturale delle società occidentali — pratica fondata, attraverso la democrazia, si d’una ideologia del ‘maggior numero», della norma maggioritaria, dell’opinione corrente: tutto indica che una sorta di vulgata aristotelica definisce ancora un tipo d’Occidente trans-storico, una civiltà (la nostra): come evitare questa evidenza che Aristotele (poetico, logico, retorico) fornisce a tutto il linguaggio, narrativo, discorsivo, argomentativo, che viene veicolato dalle “comunicazioni di massa”, una griglia analitica completa (a partire dalla nozione di ‘verisimile”) e che questo rappresenta quell’omogeneità ottimale d’un metalinguaggio e d’un linguaggio-oggetto che può definire una scienza applicata?
In regime democratico, l’aristotelismo sarebbe allora la migliore delle sociologie culturali.
In fine questa constatazione, abbastanza sconvolgente nel suo scorcio, che tutta la nostra letteratura, formata dalla retorica e sublimata dall’umanesimo, è uscita da una pratica politico-giudiziaria (a meno di mantenere il controsenso che limita la retorica alle «figure”): là dove i conflitti più brutali, di denaro, di proprietà, di classe sono assunti, contenuti, ammansiti e mantenuti da un diritto di Stato, là dove l’istituzione regolamenta la parola finta e codifica ogni ricorso al significante, là nasce la nostra letteratura. Ed è per questo che far cadere la retorica al rango d’un oggetto pienamente e semplicemente storico, rivendicare, sotto il nome di testo, di scrittura, una nuova pratica del linguaggio e non separarsi mai dalla scienza rivoluzionaria, c’è qui un solo e uno stesso lavoro.