quinta-feira, 27 de maio de 2010

Pericula ad portas!

A partir de hoje devo concentrar-me para os exames de verão. Logo após começam minhas tão esperadas "férias". Para expressar este período de estudos posto a foto do afresco "O jovem Cícero estudando", de Vicenzo Foppa (c. 1464)

segunda-feira, 10 de maio de 2010

Croce e identità cristiana di Dio nei primi secoli (Recensione)

TACCONE Fernando (ed.)

Croce e identità cristiana di Dio nei primi secoli (= Appunti di Teologia 18). Edizioni OCD, Roma 2009, 192 p., ISBN 879-88-7229-456-7

Questo volume è il frutto del lavoro scientifico del seminario patristico organizzato dalla Cattedra “Gloria Crucis” della Ponificia Università Lateranense. Curato dal egregio professore Fernando Taccone, raccoglie la ricerca di eminentissimi studiosi del mondo cristiano antico per rispondere ad alcuni quesiti fondamentali: in che modo la Chiesa dei primi secoli ha compreso e presentato la Croce di Cristo e l’identità di Dio al mondo (giudaico e pagano)?

Questi i relatori e suoi rispettivi interventi: 1) Mario Maritano, Ignazio di Antiochia:“La passione del mio Dio” (Rom 6,3); “Sangue di Dio” (Ef 1,1): Il prof. Maritano partendo del significato globale di Passione, Sangue e Croce in Ignazio conclude che i primi cristiani non avevano paura di presentare questi elementi come appartenenti al Dio incarnato una volta che la vera identità di Dio è l’amore che sa sofrire e patire pur salvare l’uomo; 2) Gaetano Lettieri, Passione e\o Impassibilità di Dio nella controversia ariana: l’autore percorrendo le prospettive antecedenti (Origenes) e posteriori (Ilario di Poitiers e i cappadoci) alla crise ariana ha costatato che “la soluzione del mistero cristologico si dà unicamente nel dinamismo onnipotente dell’amore di Dio, la più radicale, assoluta e paradossale delle passioni”; 3) Gianni Sgreva, Il movimento patripassiano:istanze positive per l’elaborazione del concetto cristiano di Dio: il relatore di questo studio dimostra come il movimento patripassiano suscitò il problema del concetto cristiano di Dio a partire della croce e allo stesso tempo provocò la possibilità di una pista di approccio alla teo-logia cristiana nella quale Dio è definito nel suo in sé essenzialmente dalla Croce di Cristo; 4) Maria Cristina Pennacchio, "pathos tes agapes": La passione di Dio in Clemente di Alessandria e Origene: in questo articolo la professoressa Pennacchio sostiene che, secondo Clemente Alessandrino, la Passione sulla Croce può essere vista come typos della passione di Dio, immagine visibile di una passione invisibile, così come il Cristo-Logos è l’immagine visibile di Dio Padre invisibile: questa è la soluzione all’apparente contraddizione tra l’assoluta trascendenza del Padre e la sua Passione che traspare nel volto del Figlio principalmente nel momento della Croce. 5) Stefan Heid, Croce identità di Dio nelle più antiche omelie della Chiesa: questo studio prende in considerazione l’impatto dello sviluppo della Liturgia della Croce nelle omelie a partire dal secolo IV; i temi più ricorrenti sono queli della croce come l’orrore dei demoni, la gloria di Cristo, l’interpretazione tipologica della croce nell’Antico Testamento, l’attività della Croce nell’assemblea liturgica, il considerare la Passione sia dal punto di vista umano sia divino, e la parenese basata sulla conversione del buon ladrone. 6) Lorenzo Dattrino, Gnosticismo in Ireneo: Dio dalla Croce e sulla Croce: in Ireneo, secondo Dattrino, la Croce non è mai separata dalla vita di Cristo prima e dopo la Passione, diventando per tutti i credenti un trofeo di vittoria. Questo tema sarà ripreso dopo l’edito di Milano in modo particolare per Latanzio, Eusebio di Cesarea e Rufino. 7) Enrico dal Covolo, San Giustino il Dio dei Filosofi e il Dio della Croce: in questo articolo il professore dal Covolo difende che “per accedere alla comprensione dell’identità cristiana di Dio e per entrare nel mistero di salvezza, ocorre passare, secondo Giustino, attraverso la Croce di Cristo”, una volta che il santo filosofo e martire afferma che “noi siamo giunti a Dio per mezzo di questo Cristo, che è stato crocifisso” (Dialogo, 11, 4-5). 8) Nello Cipriani, La rivelazione dell’amore trinitario nell’incarnazione e morte di Cristo: l’autore mediante la lectio di alcuni testi nei qualli traspare chiaramente che per mezzo dell’Incarnazione e morte di Cristo viene manifesto l’amore di Dio Padre e di Dio Figlio, confuta quelli che affermano: “La Croce [...] non dice nulla di Dio” (A. Milano). 9) Vittorina Marini, La Vergine Madre e il Figlio Crocifisso nei primi secoli della Chiesa: percorrendo la storia teologica della chiesa, sin dai primi Padri fino al Vaticano II, la professoressa V. Marini afferma che pur nella brevità dei riferimenti dei Padri riguardo alla partecipazione di Maria al dolore redentivo del Figlio, hanno invece costatato l’importanza della presenza di Maria iuxta crucem e il suo rapporto con il Redentore, essendo questo elemento la celula mater della moderna dottrina sulla cooperazione di Maria alla missione salvifica di Cristo.

Gli interventi, pur essendo brevi sono profondi sia riguardo al rigore scientifico sia alla richezza di riferimenti, sia ancora ai diversi punti di vista che formano un vero mosaico sul quale traspare “La Croce e identità di Dio nei primi secoli”. Il volume risulta un prezioso istrumento perché apre l’orizzonte alle posteriore ricerche specializzate sia nel campo letterario sia teologico sulla questione De Cruce, illuminando così il dibattito attuale sui crocifissi ed il suo significato religioso e culturale.

Aurélio Lima Correia

sábado, 8 de maio de 2010

Quarant’anni fa papa Roncalli firmava la Veterum sapientia, la costituzione apostolica sul latino. Un documento scritto perché questa lingua fosse sempre più promossa e conservata nella Chiesa. Le cose, però, andarono in maniera ben diversa...



«Presenti nel tempio massimo della cristianità il Sacro Collegio, la Curia romana, la Commissione centrale per la preparazione del Concilio Vaticano II, i corpi accademici e l’alunnato degli Atenei ecclesiastici e tutto il clero dell’Urbe, nonché il numeroso popolo di ogni stirpe e lingua, il Sommo Pontefice, che sedeva al cospetto della sua Cattedra, metteva il suggello alla costituzione apostolica sulla lingua latina, nella quale viene espressa la ferma volontà della Santa Sede “che lo studio e l’uso di questa lingua, restituita alla sua dignità, venga sempre più promosso e attuato”». Così scriveva sull’Osservatore Romano del 1° marzo 1962 il cardinal Pizzardo, rievocando il momento in cui una settimana prima, 22 febbraio, festività della Cattedra di san Pietro, gli era stata solennemente consegnata, a suo onore e onere, in quanto prefetto della Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli studi, la Veterum sapientia da papa Giovanni XXIII.

In effetti nessun altro documento del “Papa buono” fu presentato entro una cornice così fastosa. Non fu un caso: «L’abbiamo voluto firmare in questo solenne convegno preludente al Concilio» diceva il Papa nel discorso tenuto in quell’occasione «a titolo di particolare apprezzamento e onore». Ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze. Lo scopo di esse, come spesso accade in natura, era essenzialmente difensivo, e forse non solo ad extra: c’è chi pensa sia stato anche il modo di carpire la benevolenza dei conservatori per spianare la strada alla riforma conciliare e magari proprio all’affossamento del latino. Si voleva opporre, e ancor più dare l’impressione di opporre, un argine imponente al degrado altrettanto imponente dello studio e dell’uso del latino nell’ambito ecclesiastico e civile. Si intuiva infatti la forza prevalente dei fatti che, più degli argomenti, giocavano per la sua progressiva emarginazione. Non si intuiva o non si voleva intuire che in questi casi, facendo la voce troppo grossa, si rischia di non difendere nemmeno l’essenziale che era piuttosto il latino nella liturgia, da cui dipendeva anche la permanenza del suo uso e del suo studio. Ma quello si dava per scontato e la Veterum sapientia non se ne occupava.

La questione dell’uso
e dello studio del latino



Era all’incirca dalla metà del XIX secolo, dal tempo di Pio IX, che si veniva ponendo in modo sempre più urgente la questione del latino, e da allora sinodi diocesani, concili provinciali, le Sacre Congregazioni romane e gli stessi pontefici avevano fatto intendere più volte la loro voce a difesa. Ma con scarsi risultati.

Il primo documento dedicato specificamente al problema era stato una lettera ai vescovi inviata nel 1908 dalla Sacra Congregazione degli Studi a nome di papa Pio X. Ma chi prese davvero a cuore la questione, tanto che suoi sono i documenti cui maggiormente attinge la Veterum sapientia, fu Pio XI. Riprendendo una analogia già sostenuta da Leone XIII e da Benedetto XV, egli estende la custodia del deposito della fede alla custodia della sua forma latina, con l’esplicita citazione della Prima Lettera a Timoteo (6,20). Infatti dice che il latino è connesso a tal punto con la vita della Chiesa da riguardare non tanto la cultura e lettere ma la religione. E più volte negli atti del suo pontificato ricorre accorata l’affermazione tradizionale che il latino è come la madre lingua per la Chiesa e che pertanto l’ignoranza di questa lingua segnala una certa quale mancanza di amore alla Chiesa (cfr. le epistole Officiorum omnium del 1922 e The Sacred Congregation, della Sacra Congregazione dei Seminari, del 1928).

Con tutto ciò l’abbandono del latino cresce con la guerra, ma con la guerra viene anche inevitabilmente dilazionato a tempi più adatti qualunque provvedimento. I tempi maturano durante il pontificato Giovanni XXIII, cultore egli stesso dei Padri latini, come si può leggere in più pagine del suo Giornale dell’anima: «Voglio rileggere il De civitate Dei di sant’Agostino» scriveva quando era delegato apostolico proprio nei giorni della guerra (25-31 ottobre 1942) «e farmi di quella dottrina succo e sangue per giudicare tutto solo e in faccia a chi si accosta al mio ministero con sapienza che illumina e conforta». E poi ormai da papa, nel 1961: «L’esercizio della parola che vuole essere sostanziosa e non vana mi fa desiderare un accostamento maggiore a quanto scrissero i grandi pontefici dell’antichità. In questi mesi mi tornano familiari san Leone Magno e Innocenzo III. Purtroppo pochi ecclesiastici si curano di loro che sono ricchi di tanta dottrina teologica e pastorale. Non mi stancherò di attingere a queste sorgenti così preziose di scienza sacra e di alta e deliziosa poesia».

L’avvicinarsi di speranze di pace e, insieme, del Concilio, convocato col desiderio di un ritorno anche della Chiesa alla sua piena pace e unità, non senza timore, peraltro, per un’assemblea così composita, faceva sentire con più forza a papa Giovanni in particolare il valore universale e unificante della lingua latina (tema anche questo esplicitato per primo da Pio XI). Papa Giovanni espresse questa sua sollecitudine fin dall’inizio del suo pontificato e la ripeté nel discorso dell’udienza di presentazione della Veterum sapientia: «Piace qui ricordare l’importanza e il prestigio di questa lingua nel presente momento storico, in cui insieme con una più sentita esigenza di unità e di intesa fra tutti i popoli, non mancano tuttavia espressioni di individualismo. La lingua di Roma usata nella Chiesa di rito latino, particolarmente fra i suoi sacerdoti di diversa origine, può ancora oggi rendere nobile servizio all’opera di pacificazione e unificazione. Lo può rendere anche ai nuovi popoli che si affacciano fiduciosi alla vita internazionale. Essa infatti non è legata agli interessi di alcuna nazione, è fonte di chiarezza e di sicurezza dottrinale, è accessibile a quanti abbiano compiuto studi medi e superiori; e soprattutto è veicolo di comprensione».

Ma forse la causa prossima della Veterum sapientia va rintracciata anche in una contingenza del tutto marginale, diremmo oggi a quarant’anni di distanza: la riforma della scuola media inferiore che in Italia di lì a poco avrebbe relegato il latino a materia facoltativa. Significativo per non dire rivelativo, è quanto scriveva Ezio Franceschini nella Rivista del clero italiano di quel fatidico 1962: «Del tutto particolare è stato l’interesse con cui la costituzione è stata accolta in Italia: essa infatti è venuta ad inserirsi, con il peso di un’autorità immensa, sulla polemica che infuria circa l’utilità del latino da quando il suo insegnamento si prospetta come facoltativo e opzionale nella nuova “scuola media unificata” che accoglierà i giovanetti italiani dagli 11 ai 14 anni. Sua santità Giovanni XXIII si rivolge naturalmente e dà disposizioni soltanto alle scuole ecclesiastiche e religiose di ogni ordine e grado: ma le osservazioni che fa sul valore della lingua latina, sia come strumento di formazione intellettuale, sia come mezzo di comunicazione universale, hanno un significato che va ben al di là del territorio cui il discorso è rivolto».

Si pensò probabilmente che magnificare le doti del latino sul piano della storia e della cultura e prescriverne l’uso e lo studio con un documento vergato con solennità avrebbe potuto manifestare quale fosse la determinazione con cui la Chiesa intendeva difendere il latino a tutto campo, quale «tesoro di incomparabile valore», e magari scongiurare quella riforma.

Numerosi commenti, specialistici e non, venivano a confermare l’opportunità della Veterum sapientia e il suo sicuro successo. Benedetto Riposati, con più enfasi che lungimiranza, scriveva su Vita e pensiero: «La Chiesa offre un mirabile esempio di rispetto delle tradizioni culturali e umanistiche, che richiama a base della formazione intellettuale e spirituale delle giovani generazioni, e predice, consiglia, impone la lingua latina quale efficacissimo, insostituibile mezzo di codesta saggia finalità. Né fallirà al fine». Fiorenzo Romita su Monitor ecclesiasticus di quello stesso 1962 affermava soddisfatto che, a norma dell’articolo 2 della Veterum sapientia, ormai non si poteva che parlare in favore (pro) di quanto prescritto dalla nuova costituzione, nessuno avrebbe più potuto parlare, neanche per i più nobili motivi, contro (contra). Ma poi l’ultimo rigo del suo commento, che in lungo e in largo aveva legittimato principi e norme della Veterum sapientia, riconosceva lapidariamente che il problema andava ben oltre il parlare. All’attuazione della costituzione e delle Ordinationes infatti «obiectivae difficultates eaeque gravissimae obstabunt» (per chi non sa il latino: faranno ostacolo difficoltà obiettive e per di più estremamente serie). Giusto La Civiltà Cattolica si distingueva, riportando in italiano la sola parte precettiva della Veterum sapientia accompagnata dalle parole del Papa, e senza alcun commento: un modo come un altro per commentare.

In realtà di lì a poco la Chiesa non riuscì a conservare il latino nemmeno entro i suoi confini. Tutti oggi, a quarant’anni di distanza, sanno che fine ha fatto il latino, non nella scuola media italiana o nei ginnasi tedeschi, ma nel cuore della liturgia e della fede della Chiesa, e proprio lo scarto fra le disposizioni indiscutibili della Veterum sapientia e il risultato discutibilissimo fa scintille. Cosa mai pretendeva quella costituzione per avere ottenuto un risultato così difforme dai suoi dichiarati intenti? In realtà non pretendeva niente altro che l’osservanza di ciò che già era prescritto. Ma quell’osservanza già da tempo era impraticabile. Il problema non sta nel documento, ma nei tempi cambiati. Anche giudicare il tempo fa parte dei consigli evangelici.


Le due parti
della Veterum sapientia


Il documento, assai breve, si compone di due parti ben distinte. Una prima in cui si tessono le lodi della lingua latina. Tanto per la sua storia che per la sua struttura, si dice, essa è stata sempre esaltata e raccomandata allo studio e all’uso dai pontefici e dai sinodi precedenti. La lingua latina infatti ha provvidenzialmente accompagnato la propagazione del cristianesimo nell’Occidente; è universale, immutabile, piena di maestà; è la porta d’accesso alle verità trasmesse dalla Tradizione; ha grande efficacia formativa.

Rispetto a questa prima parte espositiva si può forse dire, col senno del poi (ma padre Urbano Navarrete scriveva a caldo nel 1962 più o meno le stesse cose su Periodica de re canonica), che non giovò mettere insieme senza alcun ordine gerarchico motivazioni di diversa importanza e fondatezza. Non teme smentite infatti l’affermazione che la lingua latina è «quasi una porta che mette tutti a diretto contatto con le cristiane verità tramandate dalla Tradizione [oggi che non si passa più da quella porta “le cristiane verità tramandate dalla Tradizione” sono diventate “la verità”] e con i documenti dell’insegnamento della Chiesa; e un vincolo efficacissimo che ricollega con mirabile continuità la Chiesa di oggi con quella di ieri e di domani». Mentre molto più opinabile e secondaria è la perfetta congruità della lingua latina a «promuovere ogni forma di cultura presso qualsiasi popolo» o l’«efficacia tutta speciale che hanno sia la lingua latina sia in generale la cultura umanistica nello sviluppare e formare le tenere menti dei giovani».

Al termine della prima parte si trova introdotta la seconda: infatti, proprio perché «l’uso del latino viene ai nostri giorni messo in più luoghi in discussione», la seconda parte viene deputata a contenere provvedimenti per la rinascita dello studio e dell’uso del latino. In otto punti vengono emanate norme di cui alcune immediatamente efficaci (si fa per dire), altre che attendevano di essere seguite da specifici atti esecutivi a carico della Sacra Congregazione dei Seminari: le norme 8 e 6.

Il documento in effetti fu seguito, in data 22 aprile 1962, da Ordinationes (Ordinamento degli studi) che nel giugno successivo furono inviate ai vescovi e ai rettori delle università e facoltà ecclesiastiche: sarebbero dovute entrare in vigore col primo giorno dell’anno accademico 1963-64. Estremamente dettagliate (forniscono in appendice finanche un elenco di testi patristici dai quali attingere brani in latino e greco e la traccia della relazione che si sarebbe dovuta inviare annualmente per i primi cinque anni alla Congregazione) tali Ordinationes si aprono però colla constatazione di «quanto difficile e faticoso sia attuare questa importantissima e necessaria disposizione, sia per la presente infelice condizione dello studio e dell’uso della lingua latina, sia per concomitanti circostanze di luoghi, tempi e persone». Tanto che è prevista al cap. VIII § 2 una serie di norme transitorie per facilitare un’applicazione graduale. In effetti, mentre ufficialmente il terzo fascicolo del 1962 di Seminarium, la rivista della Congregazione, riporta l’elenco delle adesioni di eminenti ecclesiastici e delle maggiori università e facoltà ecclesiastiche, ufficiosamente si sa che fioccarono proteste di moltissimi vescovi e minacce di dimissioni così numerose da parte dei professori che anche le maggiori università si sarebbero trovate nell’impossibilità di offrire i corsi se si fosse applicato il nuovo Ordinamento degli studi. Così la Congregazione fu costretta a soprassedere, chiudendo non un occhio ma tutti e due.

A due anni di distanza dalla Veterum sapientia poi, in ottemperanza all’articolo 6 che prevedeva la creazione di un Istituto accademico di lingua latina, Paolo VI, succeduto nel frattempo a Giovanni XXIII, col motu proprio Studia latinitatis del 22 febbraio 1964 erigeva presso il Pontificio Ateneo Salesiano il Pontificium Institutum Altioris Latinitatis. Pur essendo nato già macilento per mancanza di materia prima, pur essendosi illanguidito fino al punto quasi da estinguersi negli anni Settanta, pur avendo formalmente e sostanzialmente cambiato nome e finalità, di tutti i propositi della Veterum sapientia è questo l’unico a essere ancora in piedi. Affidato alla Società Salesiana è oggi guidato da un preside umile, un siciliano autoironico e cordiale che affronta con passione e allo stesso tempo con il sorriso sulle labbra l’impresa impossibile di far studiare e amare una lingua che non importa nemmeno a chi di dovere sia studiata e amata. Un’armatura leggera è l’unica difesa, a volte.

di Lorenzo Cappelletti


Fonte: http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=390